Di un gioco come Doom tendenzialmente si sa già tutto prima ancora che il gioco esca: è uno degli indiscutibili pregi di una formula onesta e vecchia scuola, riproposta con le dovute adeguatezze necessarie per tempi moderni nel 2016 da id Software e Bethesda e oggi in qualche modo conclusa, appunto, con Doom: The Dark Ages, che dal 15 maggio è disponibile su PlayStation 5, Xbox Series X/S e PC (via Steam e Battle.net), ed è anche incluso su Game Pass.
Da un gioco come Doom: The Dark Ages, dunque, si vorrebbe tendenzialmente tutto quello che si ritrova in un manifesto Futurista del 1910: velocità, adrenalina, accelerazione, violenza. Pochi fronzoli, poche storie, tanto gameplay e tanto divertimento. Fu del resto questa la formula che permise a Doom 1, nel 1993, di prevalere su tutto e su tutti.
Così, come si confà a quest’idea (che, lo vedremo, sta venendo purtroppo sgretolata), anche questa recensione sarà celere e violenta quanto un manifesto futurista.
Zim zum, pam pam, bam bam, uno entra nel gioco e vuole solo mettersi a massacrare demoni facendo cantare la doppietta, ma purtroppo prima deve fare i conti con due enormi ostacoli alla sua indomita indole.
Il primo: la grafica.
Capiamoci. Doom: The Dark Ages è dotato di un’ottima grafica. Del resto è retto dal possente id Tech 8, ma purtroppo anche le geniali menti di una software house che una volta era guidata dal gran duca John Carmack ha sviato dalla retta via. La loro protervia li ha portati ad aderire a questa nuova corrente artistica secondo la quale è assolutamente necessario imporre il ray tracing sempre comunque e dappertutto, senza possibilità di disattivarlo, o modificarne con precisione ed efficacia le opzioni.
Stupore e smarrimento nei frame non generati.
Il risultato è che il nuovo Doom, pur essendo dotato di una grafica lievemente superiore a quella di Doom Eternal, ha una performance ridotta al lumicino. La mia amata RTX 2070, contestualmente all’avvio del primo livello, mi ha comunicato: “siamo alle botte”.
È davvero un peccato che ci sia questa costrizione che distrugge il framerate, anche perché nonostante questo il motore grafico è pure ben ottimizzato: siamo ben lontani dai problemi di saturazione e crash continui di un classico uso smodato dell’Unreal Engine, ma è un po’ assurdo avere meno della metà dei frame che si avevano su Eternal con una grafica simile. Chiaramente, persone dotate di hardware migliori del mio noteranno meno il problema.
Il secondo: la storia.
Non sapendo da dove iniziare per mostrare il mio sdegno, farò parlare Filippo Tommaso Marinetti, uno che sicuramente con Doom si sarebbe divertito: “La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno”.
Ah, Marinetti, peccato che non ci fossi tu nel CdA Bethesda quando hanno deciso quale intruglio somministrare ai poveri giocatori.
Cutscene, cutscene, e ancora cutscene. Script, effetti, pause, ma soprattutto livelli guidati: il tentativo di inculcare la storia in un gioco come Doom lo ha lasciato sfigurato e deforme. Io della storia volutamente non parlerò, perché l’ho seguita per cinque minuti e poi ho deciso che non avrei potuto spendere un altro mezzo secondo a vedere gli accadimenti di una trama che ci regala perfino il Doomguy (che in neolingua oggi si dice Doom Slayer) che parla. Ho skippato tutto. Tutto, tutto, tutto. Ogni cosa è stata skippata. Ogni cutscene è stata non veduta. Appena appaiono le due bande nere orizzontali che indicano un campo largo alla Sergio Leone (segnale universale: Pericolo Cutscene) io premo Esc più veloce di un UFO.
Anticipo una facile obiezione: e quindi, che ti frega? Alla fine la storia serve a chi vuole seguirla; gli altri la saltano.
Giusto, certo, e infatti la salto. Peccato però che per fare questa storia e queste cutscene sono andati soldi, ore di lavoro, concept, know-how: tutte risorse che potevano, anzi, dovevano, essere sfruttate meglio, perché poi il gioco funziona, perché è chiaro che Doom con il suo combat normalmente funziona. Ma allora perché mortificare il puro gameplay con questa roba? Per vendere le action figure e farci sopra il merchandise? Per dare un personaggio iconico tipo Master Chief, come se Doom non ne avesse già uno? Forse bisognerebbe ricordare ai signori Bethesda/id Software che è stato il Doomguy ad ispirare Master Chief, e tutti gli altri personaggi del tipo, semplicemente perché era arrivato prima! E ora, invece, l’originale copia la copia… facendo tra l’altro un lavoro discutibile, perché pensare di dare una lore a Doom, e dargliela così prepotentemente, e questa lore, è davvero in controtendenza con tutto ciò che Doom rappresentava.
Era lo stesso Carmack a dire: “La trama nei videogiochi è come la trama nei film porno: uno si aspetta che ci sia, ma non è che sia così importante”. E infatti in Doom 1 e 2 la trama era risolta da due righe di testo nel manuale di istruzioni del gioco (o nel .txt nella cartella, se lo prendevate come shareware). Ma dio santo. Come se qualcuno oggi si ricordasse di Doom per la trama.
Ma questa non è solo una mia fissazione inutile. L’altro disastro che questa ossessione per la trama porta è la volontà di costruire esperienze scriptate per far sentire al giocatore sensazioni predeterminate. Su Doom: The Dark Ages sono stati aggiunti interi livelli super lineari a bordo di discutibili mech o (Dio me ne scampi) draghi volanti dotati di razzi post-bruciatori. Perfino mio scugino di otto anni riterrebbe un po’ infantile questa roba. Ma come si fa? E queste non sono sezioni skippabili: sono interi livelli di gameplay che DEVI FARE per arrivare al livello dopo. No pain no gain. Altro che Futurismo…
Va bene: superiamo le cutscene, supponiamo di avere una RTX 7090 Super con 64 GB di VRAM e ignoriamo il ray tracing obbligatorio. Poi il gioco, com’è?
Il gioco per il resto è buono, non è che ci sia molto da dire. È una rivisitazione dei precedenti Doom (2016) e Doom Eternal con ulteriori modifiche alla formula già testata di azione, upgrade, segreti.
Permane quella geniale idea che fu alla base, secondo me, del successo dei nuovi Doom: il combattimento infinito.
Attraverso infatti l’uso di vari strumenti dati a disposizione al giocatore, anche in questo Doom: The Dark Ages si può potenzialmente combattere all’infinito, ricaricando munizioni, vita e armatura continuamente ammazzando nemici, anche se nello scenario non ci sono più i power-up per terra da raccogliere.
Come negli altri Doom, negli encounter esistono una pletora di mob piccoli che servono a ricaricare la vita e le armi (qui più significativi e pericolosi rispetto al solito), e mob più grandi e importanti con moveset particolari da imparare e da saper affrontare. È il classico che non stanca mai.
Prima ho scritto “modifiche” alla formula e non “migliorie”. È bene rimarcarlo. Rispetto a Doom Eternal è sparito il sistema di quick-swap delle armi, che permetteva interessanti manovre e combo. È sparito anche il doppio salto, così come la motosega ed il lanciafiamme. Al loro posto, però, è stato tutto riassorbito nel nuovo grande gingillo dato al giocatore: lo scudo.
Lo scudo è infatti il centro nevralgico attorno a cui ruota il gameplay di Doom: The Dark Ages. Con lo scudo si può parare, consumando ad ogni colpo parato una classica barra, oppure utilizzarlo in maniera offensiva lanciandolo contro i nemici come fosse una sega circolare, e immobilizzandoli quindi per un certo periodo. Se uccisi con lo scudo, ma soprattutto con l’attacco corpo a corpo, che è parzialmente personalizzabile e nella scelta del quale figura anche un interessante mazzafrusto, i nemici lasciano cadere vita, munizioni e armatura.
Con lo scudo si può anche realizzare un contrattacco. Alcuni nemici effettueranno infatti attacchi segnalati da una luce verde: questi “attacchi verdi” possono essere riflessi contro i nemici se parati entro una finestra di tempo (per la verità molto lunga e permissiva).
Qui sta la più grande diversità, e forse anche criticità, rispetto al gameplay di Doom Eternal.
Ci sono infatti alcuni mostri contro i quali è sostanzialmente obbligatorio utilizzare lo scudo per parare e ribattere gli attacchi che questi effettuano. L’idea è anche buona, ma è l’obbligatorietà alle alte difficoltà che mi lascia perplesso: ci sono delle volte in cui mi è capitato di pensare di star giocando più a Dark Souls che a Doom – e questo non è un pregio in uno sparatutto in prima persona dal sapore antico. Forse è la mia idea di sparatutto ad essere conservatrice, ma preferisco di gran lunga evitare i danni degli attacchi nemici con un movimento sapiente, piuttosto che con la pressione di un tasto. E preferirei che non fosse sostanzialmente obbligatorio premere quel tasto per effettuare un contrattacco contro il mostro che fa tre o quattro volte i danni della mia più forte arma. In uno sparatutto preferirei essere maggiormente libero di sparare a tutto, anzichè di ribattere a tutto.
Dunque dico “modifiche”, e non migliorie. Altri saranno molto contenti del sistema di scudo, che però non semplifica affatto il gioco, dal momento che la difficoltà rimane alta per via, appunto, della sua quasi obbligatorietà e del fatto che il movimento è stato decisamente ridotto (manca ad esempio il doppio salto, e per gli esperti, per quanto ci sia uno sprint e un sidestep, non c’è un buon circlestrafe).
Pertanto Doom Eternal rimane ancora un ottimo prodotto, non superato ma diverso da questo, che è molto sullo stesso stile ma con importanti cambiamenti a livello di gameplay. Doom: The Dark Ages è, per usare un termine caro agli appassionati di sparatutto, un side-grade.
Lo stesso discorso fatto per lo scudo può essere ripetuto per le armi. In un qualsiasi sparatutto, e ancor di più in un Doom, le armi sono fondamentali. In The Dark Ages, la sensazione è che si sarebbe potuto fare meglio.
Anche qui può essere largamente questione di gusti, o forse non le ho capite io, però non posso fare a meno di notare una certa sensazione di mediocrità in molte delle armi del gioco. Ne cito alcune sulle quali ho più da dire: c’è ovviamente la doppietta che è sempre gustosa, ed è stato aggiunto un aggeggio che lancia una palla chiodata che fa danni cataclismici a target singolo, molto divertente. Il lanciarazzi, arma iconica di Doom, è però deludente, con un danno ridotto ma un’area di effetto grandissima che causa anche costanti incidenti di danno autoinflitto. Il lanciagranate l’ho trovato semplicemente inutilizzabile.
Apprezzabile è il lancia paletti, che spara dei dardi che perforano e impalano i nemici come accadeva su Painkiller: peccato solo che per via della quantità di nemici, della loro relativa poca importanza presi singolarmente e della natura delle mappe, si gode molto meno di un nemico impalato di quanto si godesse su Painkiller. Mitragliatrice, mitragliatrice orizzontale e fucile al plasma bocciate invece su tutta la linea. Parere ancora confuso circa il nuovo BFG: a differenza di tanti appassionati di Doom, io non sono mai stato un grande apprezzatore del BFG originale. Questa nuova versione a balestra, con un danno più localizzato, concettualmente non mi dispiace.
Rispetto ad Eternal è stato rimosso il sistema di armi efficaci per nemici specifici, nel senso che lì ogni nemico aveva un’arma contro cui era particolarmente debole, e conveniva quindi usare quella (o una combinazione di armi tramite il famoso sistema a quick-swap) per affrontarlo.
Ho apprezzato questa scelta: concettualmente, una volta che è stato inventato ed introdotto il sistema di combattimento infinito che permette di ricaricare continuamente le munizioni di tutte le armi, trovo sia più coerente lasciare al giocatore la totale libertà di usare l’arma che preferisce rispetto all’encounter che ha davanti, anziché indirizzarlo a usare armi specifiche per mostri specifici.
Sempre a proposito di scelte date al giocatore, si segnala il ritorno del sistema di upgrade di armi e strumenti già sperimentato nei precedenti capitoli della saga. Il giocatore, girando per le mappe, troverà dei Santuari della Sentinella che possono essere utilizzati per potenziare tutti gli strumenti offerti al giocatore: le armi, lo scudo, sia in versione offensiva che difensiva, e l’attacco corpo a corpo. La qualità di questi upgrade mi pare molto variabile. Vanno dal potenziamento di elementi secondari o deludenti dell’arma sino a upgrade irrinunciabili (come quelli alla doppietta) che potenziano drasticamente l’arma interessata: insomma, non tutti sono interessanti allo stesso modo – e lo stesso va detto per i potenziamenti dello scudo. Per acquistare tali upgrade servono oro e gemme, valute rinvenibili in giro per la mappa e specialmente nelle aree segrete della stessa.
Un bello sparatutto ha anche dei bei livelli. Anche in quest’ambito Doom: The Dark Ages si differenzia rispetto ai suoi predecessori. Lasciando da parte i livelli scriptati contro cui mi sono scagliato prima (che comunque non sono molti e, se ci si tura il naso, si fanno anche in fretta) le mappe di The Dark Ages sono molto più grandi, e largamente aperte. Mi hanno ricordato molto più i livelli di un Serious Sam (con orde di mostri in grandi spazi esterni) anziché i corridoi di Doom 2016 o le arene semi quadrate di Eternal.
L’automappa è peraltro completa fin dall’inizio del livello, dando così la possibilità al giocatore di vedere subito la mappa dall’alto e di esplorarla tutta (segreti compresi) con relativa facilità fin dal primo playthrough. Trovata eccellente: Doom è un gioco di azione e di sparatorie, non un’avventura esplorativa. La difficoltà dei segreti non deve basarsi sul fatto che questi sono difficili da trovare, ma al massimo difficili da raggiungere.
Figurano peraltro ambienti inediti per Doom: oltre ad ambienti antropomorfizzati in stile medioevale fantasy e al classico inferno, ci sono anche foreste, pianure e colline.
Quando Doom: The Dark Ages era stato annunciato, per via della sua ambientazione medievaleggiante, alcuni vecchi videogiocatori si aspettavano legittimamente di vedere rimandi di level design a Heretic o Hexen. In questo senso è stato una sorpresa vedere come il level design, a livello di spirito, sia molto più vicino appunto a Serious Sam.
Il gioco non presenta altre modalità se non la campagna, che è lunga: ben 22 capitoli. Giusto così. Il maldestro tentativo multiplayer di Doom Eternal era la classica cosa per la quale non valeva la pena spendere risorse e tempo di sviluppo. Oggi, il maldestro tentativo si declina in questa trama brutta e mal raccontata, con un sacco di cutscene. Ma non è un difetto insormontabile, allo stato attuale delle cose. Potrebbe però diventarlo se questa venisse individuata come la strada da seguire in futuro, anziché quella da ignorare totalmente per concentrarsi sui veri punti di forza del gioco.
Il gioco, nella campagna che propone, funziona. Ha tutto quello che ha reso belli i precedenti Doom: il combattimento ben fatto, i mostri iconici, la soddisfazione dello shooting. Ha anche dei bei livelli (ad eccezione di quelli scriptati), per quanto qualcuno potrà preferire quelli del 2016 o di Eternal: lo capisco. Sulle armi si poteva fare meglio, sì, ma anche lì un giocatore può ignorare quelle che non gli piacciono e usare solo quelle che preferisce. Lo scudo come nuovo sistema complessivamente inteso è ben fatto.
Si tratta in generale di un gioco che modifica una formula già sperimentata, ma mantenendone tutti i pregi fondamentali. Perché allora concentrarsi così tanto, com’è stato fatto, sul superfluo e sul negativo? Perché spendere lì tempo e risorse? Non è forse questo il primo passo… della strada verso l’inferno?
Sono passati dieci anni da quando Bethesda e id Software decisero di dare una nuova vita al franchise di Doom. A pensarci bene, è quasi tanto tempo quanto ne era passato da quel 2016, quando uscì il reboot di Doom, a quel 2004 quando era uscito Doom 3. E da Doom 3 a Doom 1 facevano altri dieci anni, fino al 1993.
Sembra dunque che il franchise di Doom abbia una sorta di ciclo decennale al termine del quale deve sopirsi per una decina d’anni, per poi tornare rinnovato e ringalluzzito. Sarebbe consigliabile pensarci di nuovo adesso, prima che sia troppo tardi.
Prima delle conclusioni un’ultima nota sulla colonna sonora, che purtroppo risulta deludente. Non è un caso: in The Dark Ages infatti non c’è più Mick Gordon, il compositore australiano che nei precedenti capitoli aveva fatto un lavoro magistrale. Bethesda ha tagliato i ponti con lui qualche anno fa, così come ha allontanato anche Jeremy Soule (lo storico compositore di The Elder Scrolls). Il risultato? La soundtrack composta dal gruppo Finishing Move, seppur rispettabile, è molto più fiacca e sottotono di quella di Doom Eternal. Per quanto riguarda invece la localizzazione, il prodotto è interamente tradotto e doppiato in italiano.
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7.5/10
CONSIDERAZIONI FINALI
Doom: The Dark Ages è un buon gioco che modifica anche notevolmente la formula tradizionale degli sparatutto moderni a modello id Software/Bethesda. Mantiene tutti i pregi dei precedenti, ma i suoi cambiamenti scadono spesso in difetti – e dimostrano una concentrazione degli sviluppatori eccessiva su elementi secondari dell’esperienza, come la trama e il ray tracing obbligatorio.
A livello di gameplay, lo scudo con tutto ciò che ne consegue (parate indispensabili comprese) e i livelli aperti e vasti sono novità importanti della serie, che seppur qualitativamente ben fatti potrebbero anche non piacere, per una pura questione di gusto.
Siamo comunque di fronte ad un’ottima esperienza di sparatutto, che però inizia a far vedere qualche crepa sulla quale forse sarebbe ora di riflettere, nonostante abbia ancora una volta reso onore ad una categoria di gioco vecchia scuola che si vede sempre meno.
Voto finale: 7,5/10

Ad Asczor piace videogiocare e soprattutto videogiocare bene. I giochi per lui vanno fruiti sfruttandoli fino in fondo al meglio delle proprie capacità. È per questo che Asczor s’incazza, e non poco, quando i giochi non rispettano i suoi standard di qualità. Però ha sempre le sue buone ragioni per farlo e, al contrario, non manca mai di lodare i giochi meritevoli. Peccato che siano davvero pochi.
ma boh, io mi son divertito, il problema è che lo bruci in pochi giorni, poi finita la storiella non ti viene voglia di giocarci, l’ho già dimenticato. però mi son divertito insomma quindi va bene, e via passiamo al prossimo
si ci sta 7,5 ci sta, è il peggiore dei 3.