Inutile negarlo: il rapporto tra la critica ed il prodotto criticato è da sempre molto difficile. Del resto, un pensiero che viene espresso frequentemente è che chi critica non sa fare, dunque il suo ruolo non può essere altro che di commentare ciò che altri hanno fatto. Da ciò discenderebbe una qualche inferiorità del commentatore rispetto al produttore dell’opera: il primo non fa altro che fruire di qualcosa che non saprebbe fare da solo e, in base alla sua millantata esperienza, ne dà un giudizio; il secondo, invece, è quello da cui tutto origina e grazie al quale il critico lavora – per questo dev’essere senz’altro più in alto nella scala gerarchica della società.
Iginio Massari, famoso pasticcere che sbanca l’internet italiano grazie alla sua verve da vecchio saggio e alle sue partecipazioni a Masterchef, dichiarava recentemente “chi sa fa; chi non sa critica”. Perfino nello sport (lo vedremo meglio più avanti) si pone la stessa questione: nel calcio è frequentissimo vedere scontri tra allenatori e giornalisti in conferenza stampa; nella Formula 1 Kimi Raikonnen lo scorso luglio dichiarò in radio, a causa di una scarsa manovra di un suo avversario: “What the fuck is this guy doing? If he cannot see behind him he should stay on the reporting stuff” (“Che ca**o sta facendo questo tipo? Se non sa vedere dietro di lui dovrebbe fare il commentatore”), come a dire che il riportare le cose ha un valore inferiore a farle.
È un pensiero che difficilmente non può essere definito almeno legittimo, soprattutto quando il commentatore/critico è palesemente inferiore in termini di comprensione e abilità rispetto al creatore dell’opera o comunque all’individuo sulla cui prestazione la critica si basa.
Dunque ecco il nocciolo della questione: esiste un problema di competenza da parte della critica rispetto agli autori dell’opera criticata?
Recentemente su internet la domanda è stata riportata in auge a causa di un video imbarazzante girato durante la Gamescom 2017. Protagonista era il lead writer della testata, Dean Takahashi, mentre giocava a Cuphead, platform game uscito da pochi giorni su Xbox One e PC (via Steam). Il video, che potete vedere di seguito, dimostra inequivocabilmente l’inadeguatezza di Takahashi proprio nel giocare al titolo.
Egli ha difficoltà in segmenti banali, dimostra scarsa padronanza dei comandi, si perde nei pochi tasti che deve premere e in generale sembra che non abbia nessuna di quell’esperienza complessiva che dovrebbe sorgere in chi di mestiere prova i prodotti degli altri (di tutti gli altri).
Attenzione: il video incriminato dura 26 minuti, quindi guardatene quanto basta per farvi un’idea della situazione.
Dicevamo: il critico tendenzialmente ha provato, visto o commentato i prodotti di tutti gli altri. Dove con “prodotto”, in un discorso generale che va oltre i videogiochi, si intende tutto quello che può derivare da un creatore e che è commercializzato: non solo il gioco, il film o il libro, ma anche la prestazione sportiva e perfino l’analisi critica (cioè è perfettamente lecito pensare di criticare una critica: del resto, è quel che questo articolo sta facendo). Ciò gli dovrebbe permettere di acquisire un bagaglio di conoscenze estremamente vasto, open-minded a causa della mole di cose che ha visto e di cui ha fruito. In questo senso, il critico è ancora più esperto rispetto al creatore dell’opera, che invece si è basato su un’unica concezione: la sua.
Per fare un esempio chiaro legato ai videogiochi: Valve crea Half Life nel 1997, e come tutti sanno trattasi di uno sparatutto in prima persona. Chi lo dovrebbe recensire, e in che modo?
La critica perfetta dovrebbe essere quella di chi, fin dagli albori, si è occupato di videogiochi ed in particolare di sparatutto in prima persona: quella di chi ha giocato a Doom, a Hexen, a Heretic, a Quake e ai principali titoli che costituivano il metro di paragone del genere a ridosso del 1997. Questo critico conosce la natura profonda degli sparatutto e sa quali potevano essere le incredibili novità portate da Valve con Half Life. È quindi in grado di dare un parere informato.
Deve dunque trattarsi di una persona che abbia provato più di quel che ha provato uno sviluppatore Valve, che si è invece, in questo ragionamento all’estremo, sempre concentrato soltanto sul suo prodotto.
Questa persona non ha bisogno di un tutorial e può subito entrare in gioco sapendo perfettamente a cosa va incontro: in questo modo tutta la sua attenzione è dedicata alle novità proposte e alle unicità del prodotto che sta recensendo. Se questi sembrano requisiti troppo stringenti, la sensazione è sbagliata.
Un commentatore calcistico ha sicuramente visto le principali partite delle squadre che segue negli ultimi anni (così come il recensore perfetto ha giocato ai titoli del passato da cui quelli del presente derivano) e non ha di sicuro bisogno di qualcuno che gli dica quando è fuorigioco e quando è fallo (cioè una sorta di tutorial): egli lo sa benissimo, perchè è qualificato.
È però anche abile a giocare a pallone? Questa è la domanda fondamentale.
La risposta è ovvia: no, non deve esserlo. Fabio Caressa non è un pallone d’oro, così come non lo è Di Marzio o non lo era Bruno Pizzul o qualsiasi altro commentatore o giornalista sportivo. Questa è comunque percepita come una mancanza, e infatti spesso costoro sono affiancati da un professionista o ex professionista del mestiere in grado di dare uno sguardo più “pratico” alla prestazione oggetto di commento e critica.
Questo paragone, nei videogiochi, non sta però nel giocarli, bensì nello svilupparli. È ovvio a questo punto che no, il recensore non deve saper sviluppare videogiochi per poter dare un’analisi critica degna – tuttavia, deve saperci giocare.
Questo è perchè, a differenza delle altre discipline di cui si è parlato, i videogiochi contengono in loro un principio irrinunciabile: quello dell’interattività.
Il videogioco è interattivo per definizione, quindi per poterlo fruire, a differenza di un film o di un libro, non basta un’azione passiva ma bisogna attivamente giocare e mettersi in gioco. Saper giocare ai videogiochi (vedremo più avanti a che livello, cioè “quanto bene”) è fondamentale per poterli fruire, e si situa all’interno di quell’insieme di conoscenze irrinunciabili che sono fondamentali come per un qualsiasi altro giornalista è fondamentale la buona conoscenza della lingua italiana.
Nel caso di Cuphead, il giornalista non era in grado di compiere i movimenti più semplici e scontati che dopo anni di esperienza dovrebbero essere insiti nella memoria di chi fa questo mestiere, o anche solo di chi gioca con un minimo di passione. È l’equivalente di un sedicente scrittore che non sa i rudimenti della sintassi.
A questo proposito, uno spunto giunge da un commento su reddit: “le persone“, scrive l’utente Taidan-X, “dovrebbero essere in grado di scrivere ciò che vogliono, mentre il resto di noi dovrebbe essere in grado di non considerare le opinioni di chi non ha chiaramente esperienza nel suo campo”. Un commento condivisibile, ma che sottovaluta l’epoca odierna in cui ognuno può farsi notare indipendentemente dalla propria competenza o bravura.
Qual è dunque la soluzione? Fino a che punto deve essere bravo un recensore di videogiochi a giocare al gioco che sta recensendo?
Lo deve essere al punto di capire nel profondo le sue dinamiche: deve cioè avere un’abilità tale da fruire del gioco in ogni suo aspetto e di poterlo giudicare, comparandolo alle precedenti esperienze da lui avute. Non per forza sarà necessario finire il prodotto al punto da vederne i titoli di coda: l’importante è comprendere fino in fondo la natura di ciò che si ha davanti.
In passato era usanza assegnare le recensioni di determinate testate a giocatori esperti del genere del prodotto che si stava recensendo. Così, l’appassionato di FPS recensiva Call of Duty, quello di action RPG Mass Effect, quello di guida Assetto Corsa e così via. Era in effetti un buon sistema per poter ottenere un parere più competente.
Tuttavia, anche questo sistema non fa altro che arginare il problema, perchè non riconosce l’abilità, ma solo la passione. Non sempre essere appassionati in qualcosa si traduce nell’essere bravi in quel qualcosa – o per lo meno un po’ più capaci della media, che dovrebbe essere il minimo richiesto quando si tratta di esprimere un giudizio.
In termini assoluti, poichè il recensore o il critico di videogiochi si rifà a un target “medio”, in cui sono presenti sia abili giocatori sia scarsoni, ecco che la sua abilità deve essere, almeno, di pochissimo superiore alla media – solo così il suo pensiero è legittimato.
Resta il fatto che questo requisito è basso e non è ottimale. In un MMORPG, ad esempio, la “media” dei giocatori solitamente neppure raggiunge il livello massimo. Seguendo il criterio esposto prima, un recensore dovrebbe semplicemente superare di un livello la media raggiunta dagli altri, ma come può parlare di situazioni complesse, di altissimo livello, come il bilanciamento delle classi o il contenuto end-game, ad esempio, se non è in grado di combattere efficacemente in PvP o di completare un raid? È ovvio che il suo pensiero rimarrà superficiale, basato di fatto sulle poche impressioni che ha avuto, senza scendere nel dettaglio e nella complessità.
Si pensi poi a un’altra cosa: godrà di più del gioco chi muore ogni 30 secondi o chi, anche se con alcune difficoltà, riesce agilmente ad entrare nei meccanismi e a proseguire nella storia? C’è qualcosa di diverso in ciò che si coglie nei videogiochi a seconda di quanto si è bravo a giocarli?
La risposta, in questo caso, è sì. Ed è per questo che il critico più è bravo e meglio riesce a fruire dei prodotti che critica: per questo il suo pensiero – in termini assoluti ma con le dovute eccezioni – è di base più profondo e completo di chi non è abile.
I videogiochi non sono fatti soltanto di narrativa. Anzi, la loro parte fondamentale riguarda proprio la giocabilità. Il giocare al gioco è parte essenziale dell’esperienza. Così come è parte fondamentale nell’analisi critica, ed è necessario criticarla nel miglior modo possibile per avere il miglior pensiero possibile sul prodotto.
Se per criticare la letteratura e il cinema oggi esistono quasi corsi di laurea appositi, o comunque la nostra società offre sufficienti strumenti a chi desidera intraprendere quel tipo di carriere per formare un pensiero critico superiore alla media, così non avviene ancora nei videogiochi. Finchè il videogioco verrà considerato un medium inferiore sarà difficile poter pretendere degli standard uniformi di competenza da parte di chi recensisce i prodotti.
L’ultima parola su questa faccenda, dunque, spetta sempre al pubblico. È il pubblico, con la sua testa e sensibilità, che deve decidere quale recensione reputare più affidabile e completa e quale meno. Il problema, anche in questo caso, è che non sempre c’è la sicurezza di essere in buone mani.
Grazie a Gamerevolution per lo spunto.
Ad Asczor piace videogiocare e soprattutto videogiocare bene. I giochi per lui vanno fruiti sfruttandoli fino in fondo al meglio delle proprie capacità. È per questo che Asczor s’incazza, e non poco, quando i giochi non rispettano i suoi standard di qualità. Però ha sempre le sue buone ragioni per farlo e, al contrario, non manca mai di lodare i giochi meritevoli. Peccato che siano davvero pochi.
Lascia una risposta