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Videogiochi e open world – Speciale 2° parte

Videogiochi e open world – Speciale 2° parte

Martedì abbiamo parlato dei giochi open world e di come essi cambino il nostro modo di intendere i videogame. Oggi partiamo da dove ci eravamo fermati l’altra volta, consapevoli del fatto che la materia trattata è estremamente complessa e variegata. Questo speciale, in altre parole, non ha pretese di esaustività, ma se anche solo riuscirò a fornirvi degli spunti di riflessione interessanti potrò ritenermi soddisfatto.

L’altra volta abbiamo dunque analizzato il punto di vista dei publisher e quello dei giocatori, portando poi esempi di titoli open world di successo e di altri che invece falliscono nell’offrire contenuti liberi e avvincenti, a causa di errori di design, problemi nella costruzione dell’universo di gioco o semplice pigrizia dei developer. È questo il caso di Sacred 2 o Watch Dogs, che non riescono a declinare le rispettive meccaniche e funzionalità all’interno di mondi digitali ispirati.

Quando liberi da queste limitazioni e prigioni mentali, gli sviluppatori possono invece concentrarsi sul realizzare luoghi virtuali che premino l’esplorazione in modo sottile e intelligente. Dark Souls, ad esempio, riempie il suo pur piccolo mondo di gioco con simbolismi criptici e misteriosi, che accennano a livelli di significato più profondi senza spiegarli a fondo. Grazie all’uso della narrazione ambientale, in Dark Souls anche solo un evocativo indizio sul lore o la descrizione di un oggetto può arricchire l’esperienza del giocatore più attento.

 

Praise the open world

D’altra parte in Dark Souls sembra di stare all’interno di un piccolo open world, cosa in realtà non del tutto vera dato che, a parte alcune zone, gran parte del mondo di Lordran è costituita da stanze e corridoi interconnessi. In questo senso Dark Souls è simile a un altro gioco di culto, Deus Ex (nonostante quest’ultimo presenti una progressione temporale che l’altro non ha), perchè entrambi presentano livelli abbastanza aperti atti a dare una sensazione di libertà di movimento, ma senza sconfinare nell’open world fatto e finito. Oltretutto il primo Dark Souls va lodato per il suo level design esteso anche in verticale, che contribuisce a dare quel “vibe” da ambiente aperto. Però la differenza sostanziale con i veri open world sta nel fatto che, nonostante la sensazione di essere liberi, le mappe sono comunque ridotte e non permettono la libertà di movimento omnidirezionale di un TES/GTA a caso.

A voler ben vedere, la differenza tra un Dark Souls e un vero open world è tutta in un termine: se nel primo caso si parla di mappa di gioco, nel secondo parliamo di ambiente inteso come “contenitore”, parafrasando la definizione di mondo virtuale data da Richard Bartle in Designing Virtual Worlds: il teorico inglese, padre spirituale dei MUD, ha infatti definito un mondo virtuale “a virtual environment that its inhabitants regard as being self-contained”. La differenza tra i due tipi di struttura ludica è insomma fotografata da questa diversa nomenclatura, mappa e ambiente, con tutte le conseguenze che ne derivano.

 

open world

Dark Souls dà al giocatore la sensazione di trovarsi in un open world, ma molti percorsi sono in realtà lineari.

Così come nasconde i suoi segreti al giocatore, Dark Souls occulta anche i caricamenti: se non si usa il teletrasporto tramite i falò, infatti, in gioco non si vedono mai loading screen. In realtà i caricamenti ci sono ma vengono intelligentemente celati da espedienti anch’essi carichi di simbolismi, tra ascensori e lunghi corridoi che collegano le varie zone del mondo di Lordran e fungono come “rituale di passaggio”. La brillantezza dell’opera di Miyazaki, insomma, sta nel trasformare quella che è una limitazione tecnologica in un oggetto pregno di un significato semiotico per l’universo narrativo di gioco, ponendolo sotto una nuova luce.

Pur senza arrivare a questo livello di simbolismo, quella dei caricamenti invisibili è una soluzione interessante e sperimentata anche da altri RPG, come Fallout 4. Qui quando si entra in un dungeon, o comunque un interno, i caricamenti sono spesso mascherati come sezioni giocabili sotto forma di ascensori e montacarichi: al posto di presentare un loading screen passivo, il gioco permette al PG di muoversi nel limitato spazio dell’ascensore mentre sta in realtà caricando il resto del livello. Una soluzione efficace ma che ci fa tornare di prepotenza sui chiaccheratissimi prodotti Bethesda.

Qualcuno su Reddit, non senza un pizzico di malizia, definisce infatti i mondi virtuali dei titoli Bethesda (in particolare di Skyrim e Fallout 4) dei “level selection screen”, nella misura in cui la natura open world di questi giochi non è realmente integrata nel gameplay: che sia per trovare un oggetto, uccidere un NPC ostile o parlare con un alleato, quasi ogni quest o missione richiede di entrare in un interno per essere completata, sacrificando così la componente a cielo aperto. L’open world insomma servirebbe per “smistare” il giocatore verso la prossima istanza; il mondo virtuale, nonostante la sua grandezza, rimarrebbe quindi paradossalmente confinato e perciò fine a se stesso.

Ora, per quanto questa ipotesi possa sembrare un po’ esagerata, c’è sicuramente un fondo di verità nell’affermare che negli ultimi titoli Bethesda si registri una certa perdita di elementi ruolistici, la quale tende a togliere importanza alla parte più esplorativa del gioco a favore di lunghe fasi di combattimento nei dungeon. D’altra parte sono lontani i tempi di Daggerfall, col suo immenso mondo virtuale paragonabile per estensione all’Inghilterra del Sud, e lo sono anche le terre aliene di Vvanderfell, l’isola di Morrowind. Non a caso tantissimi giocatori stanno aspettando con attesa spasmodica l’uscita di Skywind, total conversion di Morrowind realizzata col motore di Skyrim che promette di riportare l’open world al centro del palcoscenico. Che si stesse meglio quando si stava peggio? Forse sì e forse no, ma si tratta sicuramente di uno spunto di riflessione su cui riflettere.

 

open world

I prodotti Bethesda da sempre generano forti discussioni, e Fallout 4 non è da meno.

Insomma, sono ormai in molti a chiedere a Bethesda un cambio di rotta, soprattutto dopo il controverso Fallout 4. Molti infatti sostengono che l’ultima fatica della software house americana sia un titolo sopravvalutato, in virtù di un comparto tecnico solo discreto e, in fin dei conti, piuttosto deludente. Entrare nel merito di questa tesi oggi mi porterebbe fuori tema: tuttavia, quel che voglio sottolineare è che la natura open world di un gioco non influisce soltanto sull’aspetto meramente tecnico. Non sto insomma parlando di quanto texture ed effetti siano graficamente stupefacenti, quanto piuttosto della presenza o meno di caricamenti, che se eccessiva può portare a una sensazione di straniamento e scarsa autenticità, il che può a sua volta causare una mancanza di empatia tra il giocatore e l’avatar controllato.

 

If you love something, set it free

Il caricamento non solo spezza l’azione ma mostra in modo palese tutti i limiti della tecnologia, chiedendo al giocatore di sospendere l’incredulità almeno fino alla conclusione del suddetto loading screen. Gli open world invece abbattono i confini, letteralmente e metaforicamente. Non è soltanto una mera questione di non dover attendere i proverbiali 30 secondi: con un open world si guadagna la sensazione che tutto l’ambiente faccia parte di un unico mondo organico, un’ecosistema in cui ogni elemento è interdipendente dall’altro. A beneficiarne sono cioè la continuità e l’immersività dell’esperienza, quelle sensazioni che fanno perdere la cognizione del tempo e portano a fare le 4 del mattino quando si pensava di giocare “solo una mezz’oretta”.

Certo è che non tutti i videogame open world lo sono alla stessa maniera. Skyrim e Fallout 4, d’altronde, sono sì giochi open world, ma come abbiamo visto presentano diversi caricamenti all’interno del mondo virtuale: la transizione tra interni ed esterni infatti non è “seamless”, ovvero senza soluzione di continuità. Lo stesso The Witcher 3: Wild Hunt non presenta un open world totale, dal momento che la mappa è divisa in tre vaste macro-aree liberamente esplorabili (Velen, Novigrad e le Isole Skellige) più una piccola area iniziale. Ciò non toglie che il mondo dello Strigo sia per qualità e immersività un eccezionale esempio di come produrre un open world “fatto a mano” (ossia non prodotto proceduralmente da qualche algoritmo), persino migliorato dai due clamorosi DLC Hearts of Stone e Blood and Wine (contenutisticamente paragonabili a vere e proprie espansioni).

C’è inoltre il già citato istanziamento invisibile, che si verifica in tutti quei giochi in cui l’open world è suddiviso in nodi, e ogni volta che si entra in un nuovo nodo (rappresentato solitamente da una regione) l’hard disk carica le informazioni per alcuni secondi, durante i quali è possibile sperimentare rallentamenti e lag del PG. Una soluzione molto usata fin dai tempi di Morrowind e che ha attecchito anche in campo MMO, da World of Warcraft a Mortal Online (non senza freeze e problemi tecnici nell’ultimo caso).

 

open world

Arma 3 propone un open world di oltre 270 chilometri quadrati.

Insomma, potremmo dire che c’è un grado di “quanto i giochi sono open world”. Se dovessi fare una classifica in questo senso, i titoli più notevoli che mi vengono in mente sono Arma 3, il rigoroso simulatore militare di Bohemia Interactive, e Gothic 3, il sottovalutato RPG fantasy sviluppato dai Piranha Bytes prima che perdessero la bussola con la serie Risen (mentre il loro nuovo progetto, ELEX, è un’incognita tutta da verificare). Detto questo, ad ogni cosa bisogna dare la giusta importanza: se è vero che un mondo di gioco unitario rappresenta un grande traguardo, è anche vero che per la buona riuscita di un videogame, e in particolare di un GdR, bisogna considerare prima elementi come il gameplay, la narrativa, la qualità delle meccaniche e la longevità. Detto in altri termini, non me ne faccio nulla della dicitura “open world” impressa a caratteri cubitali sulla copertina se poi il gioco fa acqua da tutte le parti.

Ma d’altronde questo articolo si focalizza su un tema ben preciso, e a tal proposito non si può non parlare dei simulatori spaziali. Nel caso di giochi come Elite Dangerous, più che di open world sarebbe opportuno parlare di “open universe”, data la loro estensione superiore alla portata umana. Qui subentrano le meraviglie della creazione procedurale, capace di ricreare una galassia basata sulla Via Lattea con 400 miliardi di sistemi solari popolati di stelle, pianeti, satelliti e asteroidi perfettamente simulati. È la magia che si verifica quando da fredde righe di codice nasce la vita, seppur virtuale. Da lì a riempire questa galassia di giocatori dediti a esplorare, commerciare, contrabbandare, estrarre minerali, combattere o compiere atti di pirateria, poi, è un attimo.

 

open world

La mappa della galassia di Elite Dangerous. Accomodatevi.

A matter of life and death

A differenza dei MMORPG, che tramite la persistenza riproducono spesso mondi dinamici e in evoluzione, i giochi open world singleplayer hanno un indubbio vantaggio, ovvero di poter essere ripresi in mano a distanza di mesi, o anche anni, senza che nulla sia cambiato: il mondo che conosciamo sarà sempre lì, pronto ad attenderci come ce lo ricordavamo. Gli universi virtuali, insomma, resistono al passaggio del tempo. Se questi mondi ci hanno davvero appassionato è anche facile legarli a un periodo della propria vita. Non so voi, ma personalmente ricordo bene il periodo della mia vita da universitario in cui giocavo a Skyrim, le situazioni e le sensazioni che vivevo in quel periodo, tant’è che mi basta riascoltare le dolci arie dei brani di Jeremy Soule per sentire un tintinnio, una vibrazione nell’animo. È come se una parte di me fosse rimasta in quel mondo: si tratta un’associazione mentale ormai indissolubile, che per me vorrà sempre significare qualcosa.

 

open world

Quando l’aurora boreale spunta nella fredda notte del Nord, è difficile non innamorarsi del mondo di Skyrim.

Forse, se tendo ad associare i giochi open world a periodi particolari della mia vita è proprio perchè i titoli open world sono una metafora della vita (d’altronde avete mai visto schermate di caricamento nella vita reale?). E quando avvio un gioco di questo tipo non lo faccio per spegnere il cervello ma per accenderlo “in un altro modo”, pensando cioè a soluzioni alternative ai problemi e immergendomi in avventure epiche lontane dal grigiore della vita quotidiana. Non importa per quanto tempo non tocchi The Witcher 3: so che la prossima volta che avvierò l’exe i Regni del Nord d’ispirazione mitteleuropea saranno lì ad attendermi, con i loro raggi di luce dorati e gli alberi mossi dalla brezza del vento.

E non è forse questo l’importante?

 

 

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